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Perchè un jeans non è solo un jeans

Skinny, wide leg, bootcut, vintage: un manifesto cucito a doppio filo

di Chiara Salomone

La scorsa settimana sono stata invitata al Salotto Liu Jo, un luogo speciale, pensato per creare conversazioni nuove, libere, sorprendenti.

Mi hanno chiesto di parlare di denimempowerment, moda, libertà. Una combinazione di parole che sembrano leggere e che invece contengono mondi interi.

È stata per me un’opportunità preziosa e voglio condividere con voi alcune riflessioni che ho portato lì e che si sono amplificate e arricchite grazie alla condivisione, perché ci sono pensieri che non possono restare chiusi nell’armadio, hanno bisogno di viaggiare, di trovare altre voci, altri corpi.

Un capo da lavoro che si fa simbolo

Il denim non è mai stato solo un tessuto, è una dichiarazione, un manifesto cucito a doppio filo. Nasce come capo da lavoro: robusto, resistente, fatto per adattarsi al corpo in movimento. È alla fine dell’800 che il sarto Jacob Davis e l’imprenditore Levi Strauss brevettarono i pantaloni da lavoro in denim con i rivetti di rame, pensati per resistere alla fatica dei minatori e degli operai negli Stati Uniti. I primi a indossarli, dunque, furono proprio i lavoratori manuali del West americano: minatori, contadini, cercatori d’oro, cowboy… ma presto diventarono altro…

Negli anni Cinquanta e Sessanta, infatti, li troviamo sulle gambe dei ribelli, dei motociclisti, dei ragazzi che non volevano piegarsi alle regole borghesi. Il jeans era la loro bandiera di non conformità.

Da allora il denim ha continuato ad essere questo: un segno di libertà.

Il denim non detta legge 

Universale, ma mai neutro. Lo indossano tutti eppure ognuno lo rende diverso, unico. Il denim non detta legge, ti invita a scriverla tu. Si adatta e scolpisce. Ti lascia la libertà di esprimere chi sei o forse chi vorresti diventare senza lasciarti escluso, lasciandoti appartenere.

È straordinario il modo in cui un jeans entra in dialogo con il corpo. Avvolge senza stringere, sostiene senza opprimere. È una specie di armatura gentile: protegge, ma lascia spazio per muoversi. Il corpo lo percepisce. Il sistema nervoso lo riconosce. E tu ti senti più sicura, più pronta, più attiva, più capace di occupare il tuo posto nel mondo.

Ecco il punto: occupare spazio. 

Psicologicamente significa affermare la propria esistenza. Dire: “Sono qui”. Ogni modello di jeans racconta un modo diverso di farlo.

Lo skinny è scultura, contenimento, movimento.

Il wide leg si ferma, si apre, diventa rifugio e stabilità.

Il bootcut porta con sé libertà e consistenza.

boyfriend evocano intimità.

Il vintage celebra imperfezione e autenticità…

In ognuno c’è un linguaggio, un atto di identità.

Al Salotto Liu Jo

Al Salotto Liu Jo ho parlato proprio di questo: del potere del jeans di diventare specchio di noi stessi. Non è solo un capo di abbigliamento, ma una forma di autobiografia. Più lo indossi, più impara a conoscerti. Le pieghe, le tasche, le abrasioni diventano memoria. Alla fine non è più un tessuto: è una seconda pelle.

Ecco perchè c’è una relazione diretta tra un paio di jeans e la sensazione di empowerment: indossarli può significare affermare la propria presenza con determinazione, esplorando la possibilità di diventare pienamente se stessi, liberando la tendenza naturale all’autorealizzazione e trovando coerenza tra identità interiore e vita esteriore.

jeans non sono mai solo jeans. Sono libertà, scelta, presenza. Sono il modo con cui raccontiamo al mondo chi siamo e il modo con cui impariamo, ogni giorno, a raccontarlo a noi stessi.

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