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Il caso Zara: quando l’impressione vale un significato

Un’immagine non racconta una sola verità ma tante quante gli occhi che la osservano

di Ilaria Marocco
5 min

Zara è finita nell’occhio del ciclone per una campagna pubblicitaria lanciata e ritirata, con tanto di scuse, a tempo di record.

Per me, che nella vita mi occupo di immagine e lavoro con l’immagine, questa notizia ha destato qualche riflessione.

Partiamo dai fatti

La campagna pubblicitaria “The Jacket”, oggetto di critiche e polemiche, mostra, tra le altre immagini, una modella che porta in spalla un manichino avvolto da un lenzuolo bianco e, in altre pose, manichini con arti mancanti accompagnati da casse di legno (che in teoria, nel concept della foto, rappresentavano le casse in cui si contengono opere e sculture per poterle spedire in sicurezza). Questi scatti evocherebbero, secondo i più, le immagini di devastazione di Gaza a seguito dell’invasione militare di Israele. Riporterebbero alla mente le immagini che mostrano i cadaveri avvolti in lenzuola bianche e trasportati a braccia dai sopravvissuti e i corpi mutilati delle vittime civili della guerra. Ciliegina sulla torta di queste interpretazioni, la modella protagonista dentro una cassa di legno trasportata a spalla da lavoratori pronti a sigillarla.

Il coro delle polemiche

L’associazione visiva, a primo impatto, ha destato un coro di indignazione. L’insinuazione di aver voluto “cavalcare l’onda” della tragedia umanitaria che osserviamo da due mesi a questa parte per una campagna pubblicitaria è pesante tanto da aver portato Zara a eliminare la campagna e a scusarsi pubblicamente per il misunderstanding.

Immagini che sminuiscono la gravità della situazione, scatti irrispettosi, foto che turbano e urtano la sensibilità.

Il set fotografico e l’intenzione

La campagna, realizzata da Tim Walker, affermato fotografo di moda (tra gli altri è uno dei professionisti che immortalano per Vogue), è stata progettata a luglio e scattata a settembre quindi con largo anticipo rispetto al primo attacco di Hamas. Il concept delle foto voleva rappresentare un ambiente simile a quello del laboratorio di un artista con macchinari, piedistalli, pezzi di statue e macerie, sculture avvolte nella plastica pronte per essere spedite e casse di legno per spedirle. I toni del bianco campeggiano nell’ambiente e il protagonista della scena è il capo, perno della campagna: una giacca nera con le borchie indossata da Kristen McMenamy.

La risposta di Zara

Martedì Zara, marchio gestito dalla multinazionale spagnola Inditex, ha deciso di cancellare le foto della campagna da social, sito e app e si è scusata affermando con forza la versione dei fatti: è stato un «equivoco» e i tempi non coincidono. Ecco uno stralcio del comunicato pubblicato da Zara su Instagram: “La campagna, ideata a luglio e fotografata a settembre, presenta una serie di immagini di sculture non finite nello studio di uno scultore ed è stata creata con l’obiettivo di presentare capi di abbigliamento realizzati a mano in un contesto artistico. Sfortunatamente alcuni clienti si sono sentiti offesi da queste immagini, che ora sono state rimosse, e ci hanno visto qualcosa di diverso dall’intenzione di chi le ha realizzate..”

La mia visione

Tante le voci indignate da cui ho sentito proferire giudizi su questa vicenda. Alcuni hanno associato lo scandalo suscitato da Zara a quello di un anno fa legato alla campagna di Balenciaga (il brand fu accusato di pedopornografia perchè aveva ritratto bambini innocenti, nella loro cameretta, circondati da oggetti in stile “erotic-punk” come possibili pensierini natalizi). Altri hanno lanciato l’hashtag #BoycottZara.

Credere che ciò che vediamo sia la verità, assoluta e sola, ci espone a un grave rischio, quello di confondere livelli di percezione diversi.

Ecco, io che lavoro con l’immagine, che ho fatto dell’immagine la mia professione e che aiuto le persone ad armonizzare la loro immagine per renderla coerente e congruente con i loro contenuti, la penso esattamente così.

La prima impressione e l’immagine raccontano una verità che non sempre è LA verità.

Perchè di base non esistono significati fissi, statici e universali che valgono per tutti.

La percezione, la nostra storia personale, il nostro vissuto, il momento storico sono tutti filtri che mettiamo davanti alla nostra lente e sono quelli che ci restituiscono una interpretazione di un’immagine e non la verità.

Ed è così che il manichino diventa la vittima di guerra e basta una voce che ne innesca un’altra per dar vita ad un coro che canta note stonate, che cercano un’interpretazione negativa anche dove non serve e non c’è.

Il coro delle voci che non razionalizza e pretende che la sua interpretazione di un’immagine sia la verità lo vediamo tutti i giorni e forse anche per questo esiste il mio lavoro. Perchè a volte restituire l’immagine sbagliata, pur con le migliori intenzioni e con i contenuti più pieni e pregnanti, può essere la vera discriminante tra un fragoroso successo e una sonora sconfitta.

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