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Storia della pelliccia: da simbolo di status sociale al fur-free

Fur-free: quando un fake diventa un must have

di Annalisa Tortora
pelliccia

E la “vera pelliccia” è bandita, trasversalmente, dal luxury alla porta accanto. C’era un tempo in cui possedere una pelliccia di vera pelle era sinonimo di appartenenza ad una classe sociale elevata. Poi è diventata il must have del ceto medio alla ricerca di una sua affermazione. Oggi la pelliccia è bandita dal mondo della moda e dalla società e il fur-free diventa il vero trend.

Una presenza da sempre

Per raccontare la storia di questo elemento iconico dobbiamo andare molto indietro nel tempo, all’inizio della storia dell’uomo. Per citare fonti ben più autorevoli di Crudelia Demon, il celebre personaggio Disney malato per le pellicce, in particolar modo realizzate con i cuccioli di dalmata, osserviamo quanto non sia poi così inconsueto, sfogliando libri di storia, dalle elementari in su, vedere le raffigurazioni degli uomini primitivi ricoperti da pelli di animali.Al tempo ogni parte della preda veniva utilizzata e la pelle era fondamentale per tenersi caldi.

Un po’ più avanti nella storia la pelliccia è stata l’ornamento degli Dei e degli Eroi Greci, da Zeus ad Atena. Proseguendo sulla linea del tempo le tende degli accampamenti militari erano realizzate di pelli intrecciate. E i contadini che lavoravano i campi preferivano coprirsi con le pelli di animali per sopportare freddo ed intemperie. Qualche secolo fa, e per tutta la storia più remota, la pelliccia era rappresentativo di un ceto sociale piuttosto modesto.

I persiani furono i primi a rendere questo elemento un sinonimo di lusso ma è stato Carlo Magno, in Francia. Era solito usare vesti foderate di pelliccia per eventi solenni, sancendo il suo contributo come indumento rappresentativo di ricchezza, potere. Da quel momento in poi il vezzo della pelliccia, non più necessaria per riscaldarsi, si fece sempre più strada tra i ceti abbienti. Finanche nel clero e nella Venezia del XIII secolo. Iniziarono ad affacciarsi non solo le toghe ma anche le gole e intanto, i pellicciai diventarono professionisti sempre più ricercate.

Storia di uno status symbol che cambia

Il mito della pelliccia approda ai primi anni del ‘900 come simbolo di agio, ricchezza e molto spesso di nobiltà. Negli anni ‘40 la difficoltà di reperimento delle materie prime, come la lana, ha riportato ad incentivare l’uso della pelliccia. Nonostante fosse assolutamente inaccessibile ai più la realizzazione di un capo interamente costituito da questo materiale.

E così l’innesto di elementi realizzati in vera pelle di animale poteva iniziare a vedersi su colli, polsi, spalle. I veri must have del dopo guerra diventarono Hermione e Agrippine, rispettivamente un coprispalle ed una mantella. La pelliccia, ante e post guerra, rimaneva e confermava la sua identità di “capo d’elite”. Questa percezione veniva incentivata delle neonate star del cinema: da Rita Hayworth a Betty Hutton. La fantasia di ogni “donna comune” era solleticata da quei capi sfoggiati con simil naturalezza e grande charme.

Alla fine degli anni quaranta sono ancora poche le persone che possono permettersi un capo interamente realizzato in pelliccia. Per questo la moda continua a rilanciare immagini di donne bellissime, famose, ricche indossare con regalità il capo dei sogni. Almeno fino al decennio successivo.

Sono gli anni ‘50 che vedono compiersi una vera e propria rivoluzione sociale di benessere e rinascita Proprio in questi anni che anche la donna comune, il ceto medio, inizia ad indossare la pelliccia. Sdoganato così quello che fino ad allora era uno status symbol. Diventa oggetto di affermazione di un ritrovato benessere economico e sociale. Rappresentante la crescita e la rinascita, sfoggiata come fosse un vero gioiello. Non per tutti ma comunque per una platea molto più vasta di quella avuta fino a quegli anni. Il capo che ogni donna rispettabile doveva (non più solo desiderava) avere.

Di lì a poco però un’altra grande rivoluzione si apprestava ad iniziare. Una rivoluzione fatta di slogan, manifestazioni, proteste. Tutte volte a sensibilizzare e ad abbandonare l’uso dell’animale vero come capo di abbigliamento.

moda fur-free

La svolta animalista: la moda fur-free

La lotta animalista si oppone agli allevamenti e all’uccisione di visoni, cincilla, ermellini e simili. Ma rimane un sussurro per le coscienze per lungo periodo, con picchi di attenzione derivati da gesti eclatanti, manifestazioni imponenti. È del 1996 la pubblicità che campeggiava su Roma e Milano con una Marina Ripa di Meana completamente nuda, accompagnata dalla celeberrima frase posizionata poco al di sotto del bacino: ”l’ unica pelliccia che non mi vergogno di indossare”. In supporto della campagna dell’Ifaw contro l’uso di pelli di foca per realizzare pellicce.

L’opinione pubblica inizia ad essere realmente sensibilizzata dalle istanze animaliste e così anche l’industria della moda comincia a rispondere al desiderio di capi che soddisfino il vezzo estetico senza l’uso di animali veri. Nonostante, ancora nei primi anni del 2000, rimanesse uno dei prodotti più acquistati. Intanto vediamo arrivare nelle vetrine dei negozi, finanche in passerella, le pellicce sintetiche che definitivamente andranno a sdoganare questo capo. Si rende così accessibile a tutti nelle più disparate forme e colori.

Quello che fino a pochi decenni prima era il simbolo di ricchezza e nobiltà, di affermazione del ceto sociale, di appartenenza ad una élite, diventa un capo per tutti. Presente negli armadi di donne e bambine, uomini e ragazzi, in modo assolutamente trasversale. Diviene così un vero e proprio must have rigorosamente fake.

Contestualmente altri Stati iniziano a prendere provvedimenti circa allevamento ed utilizzo di animali per la creazione di capi in pelle. Nello scorso 2022 anche l’Italia si aggiunge alla lunga lista di paesi europei che rinunciano agli allevamenti intensivi di animali atti alla realizzazione di pellicce.

Come una vera protagonista genera scompiglio

Il tema non smette di generare dubbi e polemiche. Messa in salvo la vita degli animali i materiali che si sono sostituiti alle pelli sono spesso derivati del petrolio. Fibre sintetiche, tessuti acrilici e simili. Materiali tutt’altro che friendly anzi, gli stessi con cui viene realizzata la stragrande maggioranza della produzione fast fashion. Né biodegradabili, nè riciclabili, con modalità di produzione e smaltimento tutt’altro che sostenibili.

Per questo motivo c’è chi dice che per risparmiare la vita degli animali si sta inquinando maggiormente rispetto al passato. E questo, sul dato di partenza che vede un pianeta in grandissima sofferenza, rende l’escamotage, pur di gran moda, comunque non percorribile ancora sul lungo termine. La vera soluzione per il segmento pellicce, lasciando sani e salvi gli animali, risiede nei materiali.

Alcuni brand hanno già presentato delle soluzioni che in parte ovviano al problema. Per esempio Stella McCartney che nella collezione Fall-Winter 2020/2021 ha presentato la Koba fur-free Fur. Una pelliccia fur-free, definita ecosostenibile perché realizzata in parte in fibra vegetale e complessivamente in materiali riciclabili e biodegradabili.

Anche i nostri D&G, con l’addio alla pelliccia vera, hanno dichiarato di voler implementare la ricerca di fibre che possano realizzare un prodotto che non sia nocivo per l’ecosistema. E che anzi alleggerisca il peso di un mondo già molto sofferente.

Una storia che ha attraversato i secoli, oggetto, sinonimo, frutto di grandi rivoluzioni finanche sociali. Dopo aver cambiato connotati nel rispetto degli animali, riuscirà la pelliccia, nel rispetto di tutti gli esseri viventi, a sopravvivere alle istanze di sostenibilità che le richiede questo mondo bisognoso di attenzioni?

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