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A poco meno di due anni dal suo insediamento, Sabato De Sarno esce di scena. Un addio rumoroso, tra analisi finanziarie impietose e riflettori accesi, ben diverso dal suo ingresso in pompa magna. Era stato scelto per traghettare Gucci fuori dall’era barocca di Alessandro Michele, per riportare la maison a un’eleganza più pulita, più minimale, più “quotidiana”. Ma si sa, nel mondo della moda essere il “ragazzo della porta accanto” non sempre paga.
I numeri in rosso (non Ancora)
I numeri, impietosi, raccontano di un esperimento fallito. Il quarto trimestre del 2024 ha chiuso con un calo dei ricavi del 12%, portando il totale a 12,8 miliardi. Ancora più drammatico il terzo trimestre, in cui il gruppo ha visto il proprio fatturato scendere del 15%, mentre Gucci, il fiore all’occhiello di Kering, ha registrato un crollo del 26%, fermandosi a 1,6 miliardi. Non basta: i profitti hanno toccato il livello più basso dal 2016 e il titolo in borsa soffre, con un -36% che fa compagnia a Ferragamo nel girone infernale degli investitori delusi.
Cronaca di una morte annunciata
Ma i segnali del declino non erano solo nei bilanci: bastava fare una passeggiata davanti alle vetrine dei negozi Gucci. Dietro l’apparente celebrazione del vintage si nascondeva una realtà ben più prosaica: gli scaffali straripanti delle vecchie collezioni di Alessandro Michele, oggi trasferitosi in Valentino, che nessuno sembrava più voler comprare. Se il nuovo corso di De Sarno fosse stato davvero un successo, i magazzini sarebbero stati svuotati da tempo. E invece, la necessità di smaltire l’invenduto raccontava una storia diversa.
Eguagliare Alessandro Michele era, probabilmente, impossibile. Sette anni di regno, un’estetica riconoscibile, vendite più che raddoppiate e un’influenza culturale che ha ridisegnato l’identità del brand. Poi, certo, la crescita si era rallentata, ma Michele aveva lasciato un marchio che ancora faceva parlare di sé. Con De Sarno, invece, Gucci ha smesso di essere argomento di conversazione, e nel settore della moda questo equivale a un’agonia.
Essere un direttore creativo non basta
Il problema non era solo la visione creativa, ma un cambio di paradigma che ormai è sotto gli occhi di tutti: l’art director non deve più solo creare collezioni, deve venderle. Non basta essere un custode dell’identità del brand, bisogna anche contribuire in modo tangibile al successo finanziario. Un perfetto equilibrista tra estetica e business. Un’arte che De Sarno non è riuscito a padroneggiare.
Sabato De Sarno in Gucci è stato un po’ come Icaro e le sue ali di cera.
Lanciato nel cielo del lusso con grandi speranze e la benedizione degli dèi del corporate fashion, ha tentato di volare alto, lontano dall’estetica esagerata e opulenta di Alessandro Michele, per riportare Gucci a un’eleganza più “sobria” e commerciale. Peccato che, proprio come Icaro, abbia sottovalutato la forza del sole: il mercato, impietoso e incontentabile, ha sciolto la cera della sua visione prima ancora che potesse trovare una traiettoria stabile.
E così, dopo un breve volo, eccolo precipitare negli abissi della moda, inghiottito dalla stessa realtà che avrebbe dovuto dominare. Il padre Dedalo—leggasi Kering—dovrà ora ricostruire un nuovo piano di volo, magari con ali meno fragili e un pilota più esperto.
E ora? Ora che tutti ci siamo vestiti di Rosso Ancora Gucci per sentirci un po’ parte di questo grande cambiamento, dobbiamo svuotare gli armadi e riempirli di merletti e broccati, pronti a rincorrere di nuovo Alessandro Michele in Valentino? Forse sì, forse no. Ma una cosa è certa: non ci ricorderemo di De Sarno per aver rivoluzionato il brand, né per averlo salvato. Ci ricorderemo di un’operazione dal sapore corporate, troppo attenta ai numeri e poco alla magia. E Gucci, con tutta la sua storia, merita decisamente di più.
Il rosso Gucci Ancora si è sbiadito: addio a Sabato de Sarno.